Non ricordo l’antefatto, ne ho solo una lieve percezione. Neppure riuscivo a capire che sorta di struttura fosse, pensavo di stare cercando un albergo ma forse quello non lo era, o meglio un albergo speciale. Evidente la precisione di quella frase “Vado a cercare un albergo” ma perché? Dentro l’edificio, mi accoglie un piano terra, un corridoio ampio, diverse persone che passeggiano – particolare questo che successivamente scompare dalla memoria – sembra ci siano diverse scalinate. Mi avvio verso l’ultima in fondo sulla destra, dovrei raggiungere la stanza 20, o 30? Camminando verso la scala noto una signora, appoggiata ad un muro, non so cosa faccia, forse sta lì solo per controllare gli ospiti, uno scambio di sorrisi e, inopinatamente mi viene di dirle “Che gabbia di matti!”, senza capire il perché di quell’affermazione. La scalinata ha una prima rampa di una dozzina di scalini, non molto alti (in seguito mi ritroverò a pensare come disegnarla, la prospettiva, l’altezza, la profondità, amenità del genere), poi sale in senso inverso con una pendenza superiore. Salgo la prima rampa, quella successiva mi trovo a salirla non canonicamente, è diventata una scala di ferro battuto, bellissima, con pioli stretti ma siccome le cose semplici non amiamo, mi vedo arrampicarmi su delle protuberanze esterne alla scala. Nonostante la mia mole non leggera arrivo facilmente al piano superiore, ritrovandomi quasi istantaneamente nella stanza 20 ( o 30, non so). Ho solo la sensazione evidente di passare l’uscio e avere una sorpresa che mi lascia un sorriso beffardo; pensavo fosse la mia stanza di albergo invece mi ritrovavo in una specie di camerata che si sviluppava in obliquo, lunga che neppure immaginavo potesse essere, non credevo potesse esserci una profondità del genere. Molti letti e molte persone dentro, silenziose. Una ragazza bellissima guardava curiosa verso di me, avvicinandosi diventava sempre più invadente con lo sguardo, di una curiosità surreale. Una voce che sembrava provenire dal fondo diceva che lì potevano ospitare solo ragazzi bellissimi; non so perché ma scoppiai a ridere convulsamente, fino a farmi dolere lo stomaco, mentre procedevo all’interno continuavo a ridere forte. Era una situazione buffa e irrituale, al fondo c’era una finestra al di la della quale un balcone minuscolo accessibile solo scavalcando, davanti la quale sembrava ci fosse una brandina stracolma di quelle coperte di lana cotta. Quasi tutti erano seduti sul letto, con più di qualche cuscino dietro la schiena, alcuno attento a cosa succedesse, catatonici, solo la ragazza bellissima mi seguiva con lo sguardo. Anche la voce. La risate non smettevano, al punto da farmi allungare a terra. Non facevo altro che ridere, smodatamente, convulsamente. Mi piacciono gli avverbi. Finito qui.

“Nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo  come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna.”

È che ho vivida un’immagine, presentatasi da qualche giorno, io e il mio amico Enzo in un’enoteca a bere vino e parlare, fittamente e lungamente ma di certo lentamente, il vino era un australiano, penfold bin 128 coonawarra shiraz, ma potrebbe anche essere il 389, memoria fallace la mia, forse non è neppure importante, neanche l’episodio in sé. Questo ricordo è tornato inopinato quando sono entrato in quel parcheggio, la prima persona che ho visto proprio Enzo, l’occasione un incontro con ex compagni di classe. Ex compagni di classe… ho capito, ma lo sapevo già, che la definizione non può essere più errata, invero con molti eravamo davvero amici, profondamente amici.

È che avevo qualche perplessità, le mie ombre, i miei malumori mal si conciliavano con altri, non avevo alcun desiderio di vedere alcuno. Enzo è stato il primo che ho visto, poi in sequenza altri visi; erano quello in lontananza, visi quasi sconosciuti, dimenticati nella memoria, irriconoscibile per anni di lontananza e ovvi cambiamenti. Direi 28 anni di cambiamenti. Visi e corpi sconosciuti, meglio, non riconosciuti. Poi è stato tutto un rincorrersi di immagini, veloci, lente, emozionanti, leggere, malinconiche, rimpianti, nei visi di alcuni, gioia di altri, forse anche noia in altri. Posso dire che detesto indugiare nella nostalgia, mi piace ricordare cose belle, banalità questa, ma ho preferenza per il qui ora adesso. Ma c’è un ma, in realtà per me non era mera nostalgia, era altro, era una sorta di riconoscimento umano, intimo, profondo, è stato un riconoscere e riprendere fili che ci sono sempre, con tatto riavvicinarsi, guardare dentro quegli occhi, quei visi segnati, scrutare sorrisi per cercare di intuire pensieri e immaginare quale vita c’era stata, finora, in quelle persone. È trascorso tutto molto celermente, troppo. Troppo veloce. Riconoscere e riconoscersi.Due persone mi sono rimaste dentro per motivi diversi, un amico con cui ho studiato a siena, che avevo perso di vista subito per non capisco quale motivo; l’altra un’amica riccia piana di capelli con un bellissimo sorriso, la mia memoria è lenta ma eravamo molto amici e ora sono contento tanto di averla rivista.

Due ma non solo, bello avere rivisto e rivissuto quei visi e quegli occhi. Bello.

Così è.

 

Non si vive per decadere in una traccia di lumi, non per scivolare via sciolti portati altrove come la prima neve al vento leggero. Non si vive per decalcarsi su una lastra trasparente, non si vive per restare indifferenti. Non si vive per relegarsi in vite altrui, non si vive per finzione. Non si vive per finta.

E’ che la forma della felicità è un fiume, potente che scorre, ma che può scomparire sottoterra per nascondersi, fuoriuscire in un altrove sconosciuto in un tempo indefinito, solo apparentemente costretto in un alveo definito. Un fiume forte. Che può svanire.