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Archivio mensile:febbraio 2012

E’ che evidente era una sorta di muro, no muro, una distesa scura, buia, non cupa ma di tonalità scura, le parole fuoriuscivano come fiere impazzite, apparentemente definite, i contorni intuibili ma non precisi, aperti a multiformi significati, evidenti, accennati, ipotizzati, parole come corpi indomiti, irrequieti. Il frusciare freddo, sibilante, fronde scomposte, ogni ipotesi possibile, sembra immobile invero, ovvero il movimento è mera apparente quiete, ma perché l’hai fatto? Sequenze. Una strana sensazione, sentire il corpo nella sua essenza della carne, carne, fasce muscolari, nudo, scoperto, pulsante. I vicoli erano silenziosi, lo sono quasi sempre, immoti quasi, come se il tempo non passasse mai tra quelle mura solide, un po’ sporche dal tempo, ombrose, nascoste, prima vunery, poi la voce di yorke così particolare, prima invero amor porteno, e questa sequenza sembra quasi perfetta qui ora adesso, una leggera tramontana mi fa tenere le mani in tasca, il cane mi segue tirando il suo passo vigoroso, una sequenza che non ha alcun legame con questi vicoli così silenziosi, mi piace come certi suoni riescano ad aggrapparsi a luoghi indefinitivamente lontani, per lo spazio e il tempo e le suggestioni, eppure era così. A volte non ho da dire proprio nulla, non so come legare contatti, il filo blu e quello rosso a me sembrano di colori diversi, rischierei il corto circuito, a volte riesco a farmi piacere anche qualcosa che poco mi piace, non so perché ci riesco, forse per un difetto di programmazione che è definito insicurezza, poi però le cose si ristabiliscono per come devono essere. Ma chi dovrebbe decidere come devono? Non dire cazzate, qualche giorno e poi finisce, altro già finito, è così.

È che c’è differenza tra spingere via e rifugiarsi in sé, forse medesimo l’effetto per chi la subisce. È che mi abbandono ad un senso di apparente inviolabilità, inaccessibilità da corazza ben spessa, ben costruita, forgiata da mani sapienti che sono le mie che non sanno far altro in verità, altro di mera manualità, incapaci di assemblare alcunché eppur capaci di cesellare cotanta corazza, è che è solo embrionale quel sentimento di tristezza per la mia casa, forse vado altrove, non so ancora ma la sola idea mi adombra un po’, non so perché ho questa immagine della prospettiva che da una finestra arriva alla libreria in fondo, scura, passa per il corridoio e la libreria chiara, due porte chiare, la luce che riflette in fondo, mi piace guardare la mia casa così, tratti in progressione, è che una volta pensato tutto come un working progress, un tempo sempre aperto ad ogni possibilità, ora la visione è cambiata, le aperture si chiudono, alcune dico, alcune cose si posano tranquille, altre vestono di inevitabilità, improvvisamente, o forse improvvisamente le si scoprono tali, ho notato che da qualche anno febbraio, per me, è un mese pesante, logorante, ora sta finendo come la luce che illumina tutto di altre sfumature, riflessi altri che fanno cambiare prospettiva di visione ed è sorprendente quanto poco, a volte, basti per far cambiare le cose. L’inevitabilità per me ha una valenza vagamente triste, per non poter far nulla dico, il non poter far nulla per, che poi a me sta cosa del volere è potere mi sembra una gran cazzata, mi sa che l’ho già detto qui. Mi sa che devo solo trovare il coraggio di capire cosa davvero voglio fare da grande, bell’arcano soprattutto se non riuscissi a trovare risposta.

È che non sempre, almeno per me, è facile discernere le cose che hanno una priorità rispetto ad altre, faccio molta confusione creando ordini illogici e controproducenti, non mi rendo conto, anzi, mi rendo conto di cosa è prioritario rispetto ad altro ma poi mi comporto come se tale consapevolezza svanisse all’istante, inopinata. Perché non so, forse frenesia o forse altro. A volte invece sono travolto dall’emotività di situazioni all’apparenza sciocche, ovvero resto incastrato nell’attesa di situazioni che so, davvero lo so e la consapevolezza è nitida e non c’è nulla che possa offuscarla, poco significative, in ingranaggi emotivi che potrei facilmente superare senza alcun effetto, irrilevanti le vicende cui sono connessi, altro è invece, quel malessere da situazioni non risolte, che restano nel limbo di consistenze indefinite, di cui s’intuisce una bellezza che necessita di movimenti nello stesso senso, nella medesima direzione ma che poi si perdono altrove; quelle scie di malessere che hanno sempre una giustificazione poi diventano altro, anzi svaniscono senza lasciare traccia nell’istante della consapevolezza che tutto è andato, che ha assunto ormai sembianze distinte fors’anche irriconoscibili, inquadrate in definizioni che ne fanno perdere il senso profondo, certi sentimenti non possono essere definiti dentro belle cornici di parole, già la necessità di volerli ingabbiare fa loro perdere ogni intensità.

 

Cominciò tutto con un silenzio. Come spesso le accadeva. Silenzio mai rotto di spontanea volontà, solo un riflesso le sue parole. Non era abituata a parlare molto, aveva si confidenza con le parole ma non con gli altri, lasciava piuttosto che a parlare fosse altro, la sua stessa presenza, lo sguardo, gesti lenti, appropriati, evidenti. Le parole lo stretto necessario a corredo di se stessa. Spesso si ritrovava a pensare alla perfezione, che neppure bramava ma ammirava, nella compostezza dell’atteggiamento, nel modo di parlare senza sbavature, in ogni cosa la circondava, l’assoluta armonia dissonante che ricercava in ogni cosa incontrasse nella sua vita. Cosa rimuove il senso del perfetto? Quell’idea di perfezione che si ritrovava in quel simbolo matematico che è il numero 3. Perché proprio il 3? L’uno e trino cristiano? E poi, che c’entra la perfezione con la realtà, per natura imperfetta. Tempo addietro le era rimasto impresso il pensiero, assurdo forse, di un matematico del ‘600 che pensava di poter “alfabetizzare” il pensiero umano rappresentando tutti i concetti fondamentali utilizzando simboli la cui combinazione avrebbe dovuto formalizzare pensieri sempre più complessi. Bella pretesa di assolutezza, le tornava sempre in mente quando i suoi pensieri si affacciavano all’idea di perfezione, pensava allora impossibile da realizzare. Il mio più lontano ricordo è intinto di blu. Il blu fondo del mare alto. Un bambino piccolo a cavalcioni di un adulto, padre e figlio forse. Capelli bagnati, occhiali di cellulosa neri, un’estate dei primi anni ’70, la strada che torna dal mare verso casa, forse ora di pranzo, perché il ricordo riporta ad un quasi annegamento di quel tipo? Un muro di luce senza nome, connotato solo con un numero, No.10.

Adulterato, artefatto, artificioso. Ovvero fatto ad arte? Non ho capacità di fare nulla, ad arte, ergo? A volte credo che le parole siano un numero finito, per definire certe situazioni non ce ne sono altre che quelle poche, o tante, dette, non di più, non infinite. Poi penso, anche, che a me piace il silenzio ma c’è un silenzio nella presenza e uno nell’assenza e non hanno certo lo stesso senso. È che sembra che stia tracimando tutto quel che ho tenuto dentro che io sono bravo a tenere tutto dentro, finora non era uscito granché, ora viene fuori un po’ tutto e non mi fa stare bene.

È come sentire una parte solida invisibile che muove dentro, financo da poter tenere tra le mani aperte, non molto grande, ovvero infinitamente grande da poter essere resa essenziale così da contenerla stretta, e’ come, anche, poter disporre di tutto ma non usare nulla, al contempo ammantarsi di pura illusione di essere, fors’anche un potere cui non si è abituati, in fondo anche fastidioso, prove tecniche di stupidità, prima o poi tutto questo finirà, le stanze buie anche, forse potrò aprire qualche porta nonostante non sappia usare martello e scalpello che ci vuole quello grande, forse sì, potrei farlo, serve solo dare gran martellate e tutto crolla, più difficile bordare bene lo spazio, costruirne una porta da poter chiudere poi, aprire e chiudere secondo voglia, il vangelo del desiderio, profano, mia nonna mi diceva che ero un miscredente, con quell’accento dialettale così spiccato che strideva con quegli occhi così chiari, bellissimi, quando era giovane era davvero bella, io ho colori completamente diversi, mio padre, lui è andato ormai da quasi sette lustri, come se poi non si potesse discernere quel che è davvero, forse è come farsi spazio in una foresta di sterpi, usi una mannaia? Se la usi rischi di tagliare tutto ma sai che quegli sterpi ti impediscono di camminare, rischi di tagliare anche ciò che non serve ma tant’è, non si va per il sottile a volte, anche spesso forse, si difetta di delicatezza qui, pesantezze solo, infinite pesantezze qui adesso ora, sempre?

Voci si inseguono, sommesse, sussurrate. Silenzi. Sussurri. Flebili fili inconsistenti. Violente. Urlate. Sussurrate. Ombre tramutano. Transumanza di sensi inquieti. Ombre. Voci. Ombre. Indistinto. Tutto. Indistinto. Si fonde la voce all’ombra. Solo sangue che pulsa. Il rumore. Sangue pulsante. Pulsante nella carne. Voci nel silenzio che tutto dominano. Polimero. Unisce sfatti monomeri in costruzioni archetipe. Archetipo strutturale ovvero inconscio collettivo? I modelli originari si sfaldano in colate laviche di sedimenti insensati. Colano lasciti di umori appiccicosi. Rumoreggiano tra le dita filamenti collosi. Come portarli alla bocca e leccarli. Dissetanti. Dissertazioni non-sense.

E’ che tutto prima arriva, poi va via. Raramente le cose restano ferme dove si vorrebbe che stiano. Mi concedo banalità e qualunquismi, perché sì, perché non devo rendere conto ad alcuno circa una presunta intelligenza da difendere, che non ho. E’ che da qualche tempo, ogni volta parole arrivano, ogni volta emozioni che dagli occhi, dalla pelle, scendono giù per restare impresse su carta bianca ovvero su uno schermo sfavillante, ogni volta dico, mi assale una sensazione sgradevole, amara forse, di non-sense. Non capisco più a cosa serve lasciare parole scritte, leggibili da chiunque vuole, che poco sa, affatto conosce chi quelle parole scrive. E’ che poi, da qualche tempo, mi da fastidio leggere parole altrui, non quel fastidio fastidioso dovuto ad arroganza ovvero a quell’ipotetico intuito che a volte ci rende scontata qualsiasi cosa fuori da noi. No, è un fastidio più intimo, più legato ad un senso di intrusione nelle atmosfere altrui, nelle altrui perdizioni. E’ come se non riuscissi più a rendere invalicabile quel limite invisibile che rende la lettura maledetta. E’ che succede troppo spesso oramai che sia assolutamente impossibile contenere le parole, arginarne in qualche modo lo scivolamento nel fondo più buio, ove l’anarchia è padrona assoluta.