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Archivio mensile:marzo 2012

È una sorta di diario, non sapreio come definirlo altrimenti, un regalo di un tempo altro, lontano, oppure altro che non ricordo, m’infastidisce questa rete rotta di ricordi che si perdono, caduto dalla sua abituale posizione retta, di norma non ci faccio molto caso a quei ripiani in basso, invece quella posizione rendeva quel blu della copertina impossibile da non notare, dentro fogli sparsi, carta spessa color crema, il primo foglio scritto portava una data, perugia28 gennaio 1999, leggo le prime righe e mi fermo, parole lontane in ogni senso, nella scansione, nel senso implicito, solo una vaga verosomiglianza nell’atmosfera, sapevo cosa avrei trovato oltre ed ho avuto un senso di fastidio per quella sensazione di rimando, inopinata, estranea, conosciuta ma ormai sconosciuta, il fastidio la certezza che certe cose non passano mai, il modo di affrontarle che si perpetua, certi malesseri continui, meglio, ripetitivi, che non trovano soluzione chiara, definitiva, poi invece una lama lucente s’insinua da qualche interstizio lasciato socchiuso e quella luce reale diventa la luce che schiarisce quella impossibilità accennata ma sempre celata, per comodità pavida, di sciogliere quelle corde ormai legate da nodi cristallizzati. A volte il viso sfigurato dalla fatica chimerica di cercare di sciogliere o rompere, a volte il viso vero celato da quello di circostanza, a volte tutto questo insieme fa (s)battere il cuore fino a polverizzarlo, tempo infinito per ricostruirlo.

Ho ricordi vividi, stranamente per la mia pessima memoria, fallace, forata, ricordi di viaggi con mia mamma, si prendeva il treno dal nostro paesone diretti alla capitale, mi ricordo ancora tutto il paesaggio che scorreva fuori dai finestrini, poi diventato così normale da non guardarlo più, mi ricordo gli odori dentro i mezzi pubblici, pieni di gente affannata e assonnata e stropicciata, olezzi stantii, poi il tram, il rumore di quella carrozza sferragliante, poi ancora autobus fino pineta sacchetti, poi a piedi, il grande ospedale, viaggi ripetuti spesso, ricordi, parole che restano per sempre impresse, impresse le immagini che quelle parole portano dietro, a volte invece immagini svaniscono, presenze svaniscono, anche per motivi futili, a dispetto di parole sbandierate, forse solo riempitivi di pensieri nulli, altre invece pervicacemente restano impresse, neppure aggrappate, proprio impresse nei pensieri, nonostante tutto, mi sorprende più come presenze svaniscono facilmente, ché le parole, a volte, le si usa per sport, tanto per dire qualcosa, parole che hanno un senso denso usate con una leggerezza che poi, dopo un po’, mi lascia perplesso, forse non capisco io cosa parole significano davvero. Significati e gesti, atteggiamenti, incongruenze, indifferenze poco importanti, fatalismi, inevitabilità, anche un come stai è faticoso, mi viene da sorridere invero che a le piccolezze non mi toccano più, invece altro sì, mi tocca dentro, nel fondo, tempo solo per cose belle per noi, plurale maiestatis.

È che a volte è stupefacente come certe affermazioni, certe semplici, definite, anche stringate frasi, portino dentro una forza notevole, è come se si fosse riusciti a trovare l’esatta sequenza delle parole ad un fine preciso, esatto, come un bisturi che recide perfettamente la pelle, senza sbavature né intoppi, e l’effetto, voluto o non voluto ha poca se non nulla importanza, è quello di provocare una sorta di attrizione, talvolta contrizione invero, lascia dietro sé come una distesa di sabbia quasi asciutta per l’arretramento del mare dovuto alla marea, il mare però, costantemente torna, il senso di libertà di quei posti pensati un po’ così, scevri da sovrastrutture, non sempre, invece.

È che io non gliel’ho mai detto, ti voglio bene, è stato impossibile o forse è solo la memoria fallace, ricordo poco tempo insieme, davvero poco, chissà se poi, con il tempo, sarei stato capace, forse no ma chi può dirlo, discorso ipotetico senza sostanza, senza struttura solida, invero non mangiavo cannelloni da una vita, anni e anni, decenni credo, il ripieno è quello del ragout, il sugo invece quello semplice di passata di pomodoro, magari anche di pelati frullati, una cosa semplice, poi c’era un coscio di agnello di colfiorito che dicono sia buono buono, al forno con patate, mi trovo un po’ sorpreso dalla pochezza della mia cantina, un bel vino per quella sapidità della carne, occhio posato su il paradiso di Manfredi, nome un po’ altisonante di un brunello,2001, miricordo lo comprai in una di quelle periodiche girate a siena, un’enoteca in un vicoletto anonimo, lo avevo bevuto in una degustazione bellissima a spoleto qualche tempo prima, tutta sul brunello, quello vero? Polemica giustificata a quel tempo visto l’inchiesta della procura di siena circa le violazioni del disciplinare, che poi era anche facilmente intuibile dopo aver assaggianto alcuni brunelli, anche quelli da 100 di wine spectator, vinoni in cui il frutto ricordava la melassa, molte similitudini di fondo e poche differenziazioni, ecco, il paradiso di Manfredi aveva un carattere davvero singolare, un vino dai terziari spiccatissimi, un profumo di tabacco incredibile, il frutto rosso poco maturo e i tannini lievi, levigati dal tempo, non addomesticati ma smussati, addolciti, consapevoli della propria struttura e forza ma per questo accomodanti, gran bel vino, perfetto con quella carne succulenta, anche con i cannelloni, sì, ma perfetto compagno della carne, bottiglia di finita, peccato, dovrò andare a trovarli, a trovare quel paradiso ché quei posti sono davvero belli belli. È che poi mi sorprende la pazienza che ho che mai ho avuto finora, anche la sensazione forte, ineluttabile, di mancanza, le cose passano e vanno via, si fermano il tempo che vogliono, il tempo è poco, passa veloce, non si dovrebbe mai indugiare nel dubbio quando le cose si sente ci appartengono, ci entrano dentro e ci posseggono, perché non viverle fino in fondo? Perché magari è solo desiderio illusorio ovvero a senso unico oppure fuori tempo, sciocca dicotomia quella tra il volere e il potere, sciocca ma a volte necessariamente evidente, così è, la finitezza di ogni cosa dovrebbe portarci a trangugiarle tutte, vivere con il freno a mano tirato è forse vivere, o sopravvivere?