archivio

Rituali

E’ che a volte quello che si ascolta non ha alcun senso, alcuno percepibile, alcuno decrittabile. Ecco, a volte il senso è assolutamente e irrimediabilmente indistinguibile, indecrittabile, inaccessibile ad ogni possibilità di intersezione e immedesimazione. Ecco.

E’ che ho rivisto alcuni amici, M. e G. e L., anche altri che non vedevo da tempo, il tempo sta diventando un concetto strano, dilatato, infinito, sorprendente. E’ che mi piace tornare indietro a volte, mi conforta, mi fa bene all’anima, mi fa sorridere e ridere. Li riconosco nonostante il tempo, nonostante le distanze. E’ che M. ora è solo, ho sempre pensato che non fossero perfetti insieme, con A. dico, lo avevo visto perfetto con D., lo percepivo nitidamente da come si guardavano, da come si sfioravano, da come si parlavano, vivevamo insieme quando eravamo studenti, D. la conoscevo bene, mi piaceva che stessero insieme, si amavano; poi avevo preferito andare altrove, il loro sballo non era il mio, avevo altre preferenze, altra gente, suggestioni, interessi, vita. Ma M. lo conoscevo dall’asilo, amico d’infanzia, l’ho ritrovato con D., andavo spesso a cena a casa loro, sorridevo a vederli insieme. Fine dello studio, fine con D.; con A. avevo sempre pensato ci fosse qualcosa che mi stonava, non ho mai capito cosa fosse ma poi è finita. M. parla poco ma non sempre serve parlare, quando ci si riconosce non sempre le parole hanno così potere indomito, non ci si vede spesso ma ci si vuole bene. C’era anche G., ora vive in riva al mare, non molto lontano, ci sono palme lungo la riva, ha due figlie ma non ha avuto situazioni tranquille, sempre in giro per lavoro e la sua donna che non facilmente si adattava a questi avanti e dietro. Ora sembra sereno. L. invece mai ha avuto vita facile, un padre che aveva due donne contemporaneamente, senza arte ne parte, viveva a volte con i fratelli nati dall’altra donna, senza stabilità alcuna, in continuo vagare da una casa ad un’altra. Storie mai stabili, uscita una ragazza ne entrava un’altra. Ha gli occhi segnati, non è sciocco, è solo triste.

E’ che sono tornato indietro, in un attimo, di molti anni, poi ho pensato inopinatamente che nulla torna, non che non lo sapessi ma avevo, per un tempo indefinito, sospeso tutto. E’ che ho visto nelle loro facce, nelle rughe, nelle voci, negli occhi che tutto scorre velocemente.

 

E’che la voce di david bowie esce piano, sopra questo silenzio momentaneo, ho pensato potesse accompagnare tutte quelle immagini che scorrono con ripetizione casuale nella cornice digitale, penso che non ho più foto su carta, penso anche le leggere un libro su un supporto digitale a me fa molta tristezza anche se ho un po’ di curiosità, mi da un senso di freddo gelido che credo farò a meno di provare, certo posso portarmi dietro tutti i libri che ho a casa ma non so, non riesco a pensarci, verrebbero meno tutti quei gesti rituali forse, necessari di certo, ora bjork, voce bellissima, perfetta per quelle immagini con la neve, posso pensare forse ad una coperta di linus digitale? No, non ci penso,  immagini scorrono verso venezia, le calli, il mare, i rumori che non si sentono, oggetti strani in un luogo così antico, un po’ stridente la vicinanza, però bella, les negresses vertes, l’homme de marais e jeff buckley, anche radiohead, mi rendo conto che è tutto disomogeneo, come non ci fosse alcun filo invisibile che lega tutto, né visibile, che ne dia un senso minimamente compiuto, semmai sia necessario un senso per ogni cosa, quella copertina che sembra un deserto di sabbia ed invece potrebbe essere una landa di ghiaccio infinita, algida distesa azzurra polverosa, belli questi giorni sempre luminosi, azzurri, luminosi, freddi ma belli, l’aria gelida che s’insinua sotto il casco, gesti continui, ripetuti, inconsci, vaganti, annuso le dita dell’odore intenso, aspro, grace mi emoziona, lento, lento,  la voce gutturale acuta, poi detona forte, a volte leggo cose che non afferro, non mi riesce di capire nulla di quelle parole, non mi consentono di entrare, forse non ne sono capace, non riesco a trovare la chiave che mi apre la porta di casa, così guardo da fuori senza riuscire a distinguere le forme all’interno, poi le abbandono quelle parole, la mia incapacità non è un cruccio, affatto lo è.

 

E’ che oggi la Chiara ha messo su un bellissimo cappellino da cuoco, ha iniziato a tagliare il sedano, le carote, una cipolla rossa, poi ha scelto le spezie da utilizzare, chiodi di garofano, pepe rosso e nero e verde, poi pepe di szechuan o Sichuan che dir di voglia, voleva mettere anche la noce moscata ché quando faccio il ragout uso sempre però per un brodo di pesce forse la noce moscata non è necessaria, poi ha messo dentro, con difficoltà che le facevano un po’ senso, le teste di gambero, tutto per un profumatissimo brodo di pesce, per il risotto. Poi le chiedo di mettere uno spicchio di aglio vestito in una padella con dell’olio, quello della nonna? Sì, Chiara, usa quello, dopo qualche minuto metti nella pentola il pesce, gamberi, cozze, vongole, polipi e totani, aiuto fondamentale oggi. Che vino mettiamo? Un bel vinello bianco? Brava la mia piccola, apriamo quello che ho comprato a Cerea, vino terronico, siculo, SP68 bianco di Arianna Occhipinti, da albanello e moscato di alessandria, vinificato secco, al naso l’aromaticità del moscato è evidente, in bocca si percepisce solamente poi la freschezza prevale, lo uso per il pesce cui aggiungo anche un po’ di brodo e dei pachini, quando è pronto le faccio mettere il riso, carnaroli di cascina veneria, lascio tostare per qualche minuto poi mi faccio aiutare a versare il brodo, lo metto tutto insieme, la cottura ad assorbimento completo. La Chiara sorride, ha fatto un risotto che le è piaciuto molto, SP68 interessante con il risotto, il brodo speziato rendeva accogliente quell’aromaticità non accentuata, la freschezza faceva il resto, poi l’alcolicità contenuta lascia bere quel vino con gran facilità. Vino siculo, che parla di una strada provinciale che metaforicamente rappresenta il viaggio dei contadini verso le vigne e poi il percorso del vino verso le diverse destinazioni.
E’ che ho un valido aiuto cuoco ora.

E’ che a volte è inestricabile il nucleo di sensazioni che pervade, che scorre sotto la pelle e diffonde ovunque, si fatica a distinguere tra le parole a volte. Sembra un gran gioco di teoria degli insiemi. L’appartenenza, la contiguità, l’intersezione, la tangenza. Vorrei tenerli distinti ma lo sforzo sarebbe immane. Fors’anche inutile. Le parole sono poi libere nel loro scorrere? La censura dell’intuito porta alla cesura dei pensieri, delle parole? Perché poi? Perché non lasciar dipanare le sue strette, a volte infide, maglie nei pensieri che giacciono placidi nella mente? Perché non abbandonarsi al suo sberleffo sarcastico per i beffardi inaspettati successi contro ogni visione che segue la ragione? A volte sento una fame indicibile, non di cibo, almeno non quello solido per la sopravvivenza fisica, invero di quel cibo per gli occhi, per l’anima, cibo necessario come l’assetato brama l’acqua non assaporata da tempo, come se tutto ci circonda fosse l’indispensabile  essenzialità per la vita che risiede dentro i movimenti meccanici del corpo, cibo che fa vibrare l’intangibile, l’invisibile vibrato che è qui dentro.

E’ che avevo in congelatore una gallina ruspante, inquietante il pensiero, vero, ma era ormai morta, gallina ruspante di quelle lasciate libere nei loro spazi finché arriva la loro ora, ormai un ricordo il caldo settembrino, autunno inoltrato, i primi freddi che fanno venir voglia di calore, penso allora a cosa posso fare con quella povera gallinella ormai deceduta, il brodo è una bella idea, la viviseziono, ne faccio pezzi piccoli, le ali, le cosce, il petto, metto tutto dentro una pentola con acqua fredda, una cipolla, delle carote, una costa di sedano, alcuni grani di pepe di Szechuan o Sichuan, un pepe dal profumo inebriante, due foglie di salvia e qualche bacca di ginepro, metto tutto sul fuoco e lascio cuocere quasi tutta la mattinata, un’oretta prima di quella che penso la fine della cotture, aggiungo anche due o tre patate. Che pasta? Direi, ovviamente, cappelletti fatti a mano ma non so ancora farli per cui li compro in un piccolo laboratorio che produce pasta, buoni davvero, filtro il brodo con un canovaccio così da togliere quel grasso giallo che tira fuori la gallina anche se un po’ lascio passarlo, i cappelletti li cuocio lì dentro. Avevo preso, qualche tempo fa, una bottiglia di franciacorta, un brut di enrico gatti che non avevo mai bevuto, consigliato dal mio amico germano, enoteca in cui ho lavorato ormai anni e anni orsono, bel vino fragrante, bel colore vivo, mi lascia la pulizia che cercavo, con il brodo, un vino non invadente, con impatto discreto, nel naso e in bocca, una discrezione elegante invero, non dominante, un piacevole commensale direi.

E’ che a me il vino piace, mi piace davvero, non tanto la ritualità che anche ho imparato e poi abbandonato solo per come poi le cose vanno, casualità dico ché a me piaceva eccome mescere e parlare di vino con chiunque mentre ora sembra ne voglian fare una questione di ricercatezza ma questo è solo una piccola polemica personale; mi piace proprio tutto quello che il vino suggestiona, mi piace parlare con vignaioli che credono davvero in quel che fanno, credono che fare vino significhi principalmente rispetto della terra, non contaminarla con schifezze chimiche che possono distruggerla nel tempo, credono nella natura, nel ritorno a fare il vino seguendo ciò che la natura ha sempre insegnato a chi vuole ascoltarla, senza forzare i tempi e i modi; mi piace guardare le bottiglie, sceglierle, pensare a cosa poter cucinare per quel vino con la certezza che è solo la curiosità di cercare emozioni il fine di tutto, non ho un vino preferito ché ancora ne devo bere molti che non conosco, mi piace percepire le sfumature ovvero le evidenze olfattive, tattili, cromatiche, mi piace pensare al vino e poi curiosare nella terra, nel luoghi, guardare al vino come una forma culturale, come espressione immediata di luoghi e bellezze e tradizioni, mi piace sentirne la mineralità, la potenza del corpo, come entra dentro e si appropria di tutti i sensi, come rimanda al calore, alla fatica, come possono essere scorbutici, spigolosi, timidi anche, alteri ovvero espansivi, come richiedono tempo oppure si svelano immediatamente, allegri, vistosi, ciarlieri. E’ questione di conoscenza? Conoscere. A volte penso che sia vana bramosia la conoscenza, la ricerca infinita invero.

Ho letto un articolo su un vignaiolo piemontese ormai morto da qualche tempo, Teobaldo Cappellano, me ne ricordo in una conferenza nell’aula magna dell’università a Siena qualche tempo fa, ricordi sovrapposti ad un’altra situazione in quel luogo bellissimo, ora se ne occupa il figlio dell’azienda, mi torna in mente allora una barbera d’alba che ho bevuto da non molto tempo, Gabutti 2003, colore vivo, perfetto dopo qualche decina di minuti dall’apertura, perfetto da bere dico, rotondo, morbido, di una freschezza che non sente i sette anni che ha, nell’occasione c’era del formaggio, un crottin di pecora notevole, un gorgonzola lieve e poco invadente, un blu del moncenisio che volevo utilizzare per un risotto con anche carciofi e barbozzo, non mancherà certo occasione per cucinarlo ancora, poi un incredibile grana di pecora, un formaggio sardo davvero delizioso, profumato di fiori, quella barbera passava da un formaggio all’altro senza problemi, quel vino come fosse un filo conduttore tra quei formaggi, provenienza e intensità e forza e sfumature differenti legate insieme da quel naso pieno, da quella fresca permanenza nella bocca.

E’ che penso al fatto di non aver mai amato i rituali eppure ne ho creato, involontariamente uno, rituale laico, ovvio, rituale del pranzo sabatino, nato non so come né da quanto tempo, un giorno strano il sabato, la mattina sembra senza tempo per quanto  passa celermente, non mi piace fare le pulizie di casa, mi piace invece fare spesa nel negozio di frutta e verdura vicino scuola, scegliere pere e mele e melanzane e peperoni e verza e carciofi e poi mozzarella ed anche ricotta, poi torno a casa, lavoro la ricotta con olio e pepe sino a renderla una crema un po’ grossolana, bello vedere come cambia la consistenza, il mestolo di legno senza rumore che gira e poi gira ancora, movimento costante, morbido, poi taglio a pezzi irregolari il salmone affumicato, continuo a girare, una crema morbida, poi della pasta integrale, rigatoni, quel movimento, bello, rotondo, come mani addosso che entrano la carne, l’ardito paragone senza senso? Noi ce se ne catafotte.