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Libri

“…la forza che cerco non ha a che vedere col vincere o perdere. Non voglio un muro per respingere la forza che viene dall’esterno. Quello che voglio è la forza per ricevere gli assalti che arrivano, e sopportarli. L’ingiustizia, la sfortuna, la tristezza, i malintesi, le incomprensioni…Voglio la forza per sopportare tranquillamente tutte queste cose.” So che è difficile da trovare questa forza ma io ho solo una ferita che mi aiuta, un catalizzatore, forse è la mia piccola fortuna, un piccolo tesoro che assorbe l’oscuro essendo la causa stessa di quel profondo inquieto dolente indomito lato buio.

Mi sveglio presto, il cucciolo piange, accendo la piccola luce vicina al letto, il primo sguardo incontra questo libro, letto qualche anno fa. Mi ricordo lo svelare lento di vite fatte di solitudine vivida, vite che si sovrappongono, senza quasi toccarsi, il punto di contatto comune un palazzo con un ascensore di altri tempi, rivestito di mogano, come se quell’ascensore orientasse lo sguardo sulle varie vite che popolavano il palazzo, ogni piano, ogni appartamento, uno sguardo, più d’uno magari. Vite eccentriche ovvero noiose ovvero alla ricerca di gesti per riempire vuoti incolmabili ovvero normali, semmai una città come new york possa contenere normalità. Bellissima sovrapposizione di anime sole. Bellissimo libro Baciarsi a Manhattan.

Il mistero massacrante della forma è che è presente, c’è, e tutto finisce lì. E dentro una forma si può dimorare lascivi, senza sapere quale ma nella segreta presunzione di poter arrivare infine a vederla, facendola emergere dallo sfondo come l’abbozzo di un dipinto successivamente ricoperto dal colore. Inconsapevoli, ogni volta, della forma che circonda, fino a osservarla definita e rimanerne delusi. La forma. Non c’è necessità di discutere, martellante nella testa, ripetitivo, scalmanato e  pacificato, spingo gli auricolari nelle orecchie come se il suono dovesse penetrare il cervello, diffondere come una flebo di suoni.

“E poi, non preoccuparti per me: la possibile indignazione di qualcuno non basta a tirar fuori un colpevole, neppure il dolore possibile, nessuno fa qualcosa convinto che sia fatto male, è soltanto che in molti momenti non si possono tenere in considerazione gli altri, rimarremmo paralizzati, a volte non si può pensare ad altro che a noi stessi e al momento, non a ciò che viene dopo. (…) molte volte si parla senza sapere, soltanto perché ci tocca farlo, spinti dai silenzi come nei dialoghi a teatro, con la differenza che noi improvvisiamo sempre.”

E’ che la mattina mi sveglio presto, esco dalla camera e la luce dell’alba passa il vetro della porta del bagno, illumina di quella luce algida mattutina la libreria che percorre tutto il corridoio, poi, in fondo anche l’altra libreria, mi piace trovare, davanti gli occhi, quella prospettiva profonda, poco illuminata, poi, inopinato, un pensiero, ma se avessi un e-reader, avrei bisogno forse di ologrammi dei libri memorizzati in quell’affarino minuscolo? Mi piace guardare attorno tutti quei libri, senza sarebbe tutto vuoto, penso un vuoto vivido, fisico e intimo, di tutte quelle parole entrate dentro non più visibili. Ma sono curioso dei libri elettronici.

“Non ho ucciso Trogville. Dicano pure quel che vogliono, ma non l’ho ucciso. Sì, d’accordo, ho sciolto un blando narcotico nel suo bicchiere di whisky; poi, l’ho spogliato nudo, l’ho steso a faccia in giù sul parquet e ho infilato una zucchina nel suo ano butirroso e tremolante; ma quando ho lasciato il suo appartamento in via delle Orsoline era ancora vivissimo. Saranno state più o meno le nove di sera. A un quarto a mezzanotte lo hanno trovato abbandonato scompostamente sul pavimento come un burattino senza fili, con il cuore estirpato e sistemato con cura nel palmo della mano sinistra. E ora dicono che sono stato io. Io detestavo Trogville, lo odiavo e lo temevo, ma non sono stato io a ucciderlo.”

Un libro trovato casualmente, Confessioni di un cuoco eretico, letto l’incipit non si può non continuare.