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Archivio mensile:novembre 2011

E’ che spesso noto le chiose finali, come se poche parole potessero racchiudere sensi profondi che, invero, necessitano di parole per dipanare nodi complessi. Quando ero piccolo mi piacevano i nodi, come le costellazioni. Le chiose le noto immediatamente ma non mi piacciono, forse perchè non amo le chiusure, non mi piace neppure salutare chi parte, detesto salutare chi parte in treno, giro subito lo sguardo e vado via per evitare l’accenno del respiro bloccato, lo detesto profondamente.

A volte penso di essere come un cielo attraversato sempre da qualche ombra, nuvola chiara, poi scura, poi qualche cavo che rovina la vista sull’orizzonte, mai sgombro, mai perfettamente azzurro, mai monocromatico, sempre sempre con qualche elemento che interferisce la sensazione di trasparenza, elementi di sostanza impropria, indefinita, che sfocano il lucore vivido del mattino.

“Il puro presente è il processo impercettibile in cui il passato avanza divorando il futuro. A dire il vero, ogni percezione è già ricordo.”

Un vino del trentino da uve pavana, un metodo classico da un’uva rossa, azienda agricola angelica, bella l’etichetta, un bel vino allegro, simpatico, bevuto con buon risotto al ragout e mozzarella, agrumi evidenti e bella pulizia, tempo fa ero un po’ ortodosso su sta cosa, non m’incuriosivano le bollicine rosse, avevo preferenza per bollicine da pinot nero in cui la struttura fosse evidente, percepibile, anche a scapito della trama elegante, potenza e forza versus eleganza, è che poi  le cose cambiano, sempre, tutto un divenire sempre in movimento, difficile se non impossibile pensare  alla vita e alle persone e alle cose in termini di staticità, la coerenza credo non possa esistere  nella continua definizione della vita. Coerenza, se tale è la risposta definita, la ferma necessità di poter cambiare idea sempre ma riferendo alla natura più intima di sé, l’evidenza esterna alla necessità più fonda di sé, ecco, sì, sono coerente, anche se detesto profondamente questo lemma anche se non so perché.

Erano una moltitudine, di blatte, correvano dietro un riccio, lo ricoprivano completamente e lo divoravano, sembrava fosse un avvertimento per me che non capito perché tutte quelle blatte. Poi una sensazione di stranimento infinito, una sorta di sospensione leggera, nulla intorno, nulla di un colore indefinito, lattiginoso, liquido amniotico senza consistenza, gli occhi sorpresi da cotanto nulla attorno, indecifrabile, impossibile nella mia percezione razionale eppure così.

E’ che non avevo alcuna voglia di cucinare oggi, così avevo pensato di fare, nulla, invece poi mi sono ricordato dei ravioli che avevo congelato, quelli di branzino, in frigo avevo un cavolo verde, quello calabrese, penso di metterlo in acqua fredda e lessarlo, lo faccio cuocere molto così poi posso renderlo crema facilmente anche senza frullarlo; pensavo che quei ravioli potessero star bene con una crema di cavolo, ho fatto una base di acciughe e aglio e l’ultimo pezzo di bottarga che era rimasto, qualche minuto e ho messo il cavolo che ho schiacciato con una forchetta, ogni tanto mettevo un po’ dell’acqua di cottura del cavolo in cui ho cotto i ravioli, una volta saliti su li ho messi nella padella con il cavolo verde, una spolverata di bottarga, girato tutto e fatto, il piatto pronto. C’era anche qualche totano fritto per antipasto, tutto, anche i ravioli con una bella birra fresca, 32 si chiama, 32 Audace di un birrificio trevigiano, come il radicchio che avrei voluto fare in risotto ma che poi non ho fatto. Curiosa quella birra con i ravioli, magari non perfetta ma interessante, non squilibrata, un bell’aroma agrumato e una bella gradazione, perfetta con il fritto e morbida con i ravioli. Così è.

L’infinito dolore che permea ogni minima infinita invisibile incontrollabile parte del sé più intimo, la tracimazione impulsiva che è implosione visibile di ogni sensazione che propaga dentro come un carcinoma, espande il dominio a qualsiasi pensiero razionale trasformandolo in irrazionale e indefinito ed egotico centro periferico che assurge a dominate assoluto. L’idea che la felicità è solo il termine di una fase d’infinita profonda noia, come l’assorbimento e arrivo di una fase di tumido tedio. Quella descrizione capillare,  analitica, minuziosa di cose inutili, di gesti irrimediabilmente comuni, cos’altro è se non la glorificazione del nulla più assoluto? Cosa è l’espressione estetica della nostra società del dio consumo assurto a sopra-dio? Cosa?

“Aspetta che siano davvero lontani. Poi torna a guardare il cielo e all’improvviso percepisce la consistenza cromatica di quel mattino. Per qualche secondo ha la sensazione di essere sospeso dalle cose. Lontano. Adesso sa che è davvero mattino, una sensazione antica e inspiegabile. Mette le mani in tasca e scende verso il porto. Il sole è lento e obliquo, uomini gridano altri ascoltano, il bar spreca caffè che cade sul vassoio della macchina espresso, i tavolini sono già coperti dall’acqua e dall’umido; l’odore del pesce è fortissimo, si ferma ad osservare le casse bianche coi polipi e i frutti di mare e le triglie rosse e le spigole e le orate, dove saranno gli altri? Non pensa ad altro ormai. Ora, in questo istante, tutte le facce che ho incontrato in questi giorni, che staranno facendo? Questo dannato pensiero che lo tormenta da sempre, la contemporaneità, che sta accadendo in quell’istante?… da qualsiasi altra parte? Dove bisogna trovarsi per essere felici? Cosa mi sto perdendo?”

È che tira un vento forte freddo, pulisce il cielo di scorie umide, pensavo a come le cose cambino, ho preferenza che i cambiamenti siano dentro, i cambiamenti esteriori lasciano il tempo che trovano, solo una pulizia di facciata che non ha certezza di sostanza, tempo addietro ero spesso iroso, permaloso, diventavo furioso, occhi di brace che faticavano ad acquietarsi; motivi, i più disparati, inquietudine evidente, forse l’impossibilità di conoscere l’origine del gioco, la necessità di condurre, spirito indomito, un po’ sciocco invero, il tempo a cercare di dilatare limiti conosciuti, alcun limite in un non tempo, sorpresa costante, incontrollabile l’umore, ricerca di contaminazioni, lancinanti, accecanti. Spazi vuoti da riempire, oscuri buchi neri, attesa, attesa. Tempo dedicato a cose inutili, persone inutili, sì, ci sono persone che per noi possono essere inutili, l’utilità invece la ricerca di compenetrazioni, infinito spreco di energia perché era così, potevo pensare che ogni cosa avesse un suo senso, lo ha, certo, ora riconosco il senso che voglio da quello che potrebbe nuocermi, che non mi da nulla, che mi irrita, che mi lascia indifferente, che non mi interessa affatto. Anche cose di poco conto cerco, magari incontrovertibili illusioni di giochi di prestigio verbale, basta che sia io a scegliere.