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Magma

A volte credo che si possa fare tutto, perché tutto è possibile, semplicemente, e non perché sia bello o sensato. Io non credo alla trasparenza, a volte mento, so di farlo, mai nascosto a nessuno, financo a me non lo nascondo, mento a me stesso per crederci, mai per ingannarmi. So come mi sento, e perché. Conosco ogni micromovimento, avvisaglia, sintomo o rumore “del mobbing dell’infelicità”. Quello smarrimento così caratteristico: quella solitudine definitiva, quella svalutazione immediata di tutto. Di me stesso, soprattutto. Non so se tutto questo è illusione di libertà ovvero se esiste davvero. Sonata per uomini buoni, piccoli frammenti immobili, delicati, di vite altrove, di vite che sono state, che, forse, ancora devono essere. Qualche strascico resta, emozioni indotte, comandate, perché non abbandonarsi invece ad un pomeriggio di tedio a fare nulla, perché non lasciarsi sopraffare dal semplice movimento di quegli occhi alla scoperta inopinata di avere intuito la strada giusta? Incastri di pezzi impossibili da conformarsi, insinuare nuova vita a pezzi di vita inconciliabili. Nuovo manifesto: alterato, edulcorato, artefatto, artificioso. Avere mille occhi che guardano tutto, non serve, come colmare buchi senza fondo di materia solida, quantità senza senso. A volte penso che giudicare implichi solo una mancanza, assoluta, di pudore, di quello che fa guardare prima dentro, poi oltre il nostro piccolo orizzonte.

È che ieri mattina, senza un motivo apparente, avevo il cuore che batteva a velocità inusitata, lo sentivo in gola come volesse fuoriuscire, mi sentivo come sdoppiato, il mio corpo da una parte, il cuore dall’altra come avesse una vita a sé stante, indifferente la compenetrazione, batteva forte, forte, è che ho aperto una bella bottiglia, una vendemmia tardiva di Ar.Pe.Pe., Ultimi raggi 2002, perché una vendemmia tardiva? Perché sì, radicchio trevigiano e gorgonzola in risotto, stavolta ho optato per una variante che mai avevo sperimentato, cipolla soffritta in burro, riso lasciato tostare diversi minuti con mezzo bicchiere di quel vino, poi ho aggiunto il brodo vegetale e il radicchio, a cottura ultimata ho aggiunto il gorgonzola; avevo in frigo della zucca, non è nella mia tradizione gastronomica invero, sono un terrone non un polentone, però mi ricordo che mia nonna, in un’occasione, a natale, la cucinava sempre, solo al forno, la metteva sottosale e poi in forno con alloro e peperoncino; poi, anzi prima, dei crostini con gorgonzola e un formaggio della borgogna, il vino era perfetto con tutto, al naso il richiamo della concentrazione zuccherina dell’uva raccolta tardiva, percepibile, sì, in bocca poi si sentiva poco, bella freschezza e tannino presente, suadente, morbido, accogliente, un gran bel vino, ogni boccone lo chiamava, lui rispondeva con gran sorriso, elegante, all’inizio un po’ sornione poi fermo, caldo all’impatto, alta la gradazione alcolica, ho osato, metterlo vicino un apple pie, vicinanza azzardata, lo sapevo, ardita, molto forzata ma poi alla fine neppure così stramba, creava dissonanza gustativa ma era solo per provare. Nel frattempo il cuore batteva forte, continuo, mai domo. Batteva. Batteva. Non mi ha fatto paura, un po’ sì, in realtà, ma poi mi sono abituato. Ottimo il vino con il risotto anche se quel risotto lo preferisco fare con il radicchio appassito prima e senza burro, sono terrone dopo tutto, ho preferenza per l’olio extravergine di casa mia. Così è.

“…la forza che cerco non ha a che vedere col vincere o perdere. Non voglio un muro per respingere la forza che viene dall’esterno. Quello che voglio è la forza per ricevere gli assalti che arrivano, e sopportarli. L’ingiustizia, la sfortuna, la tristezza, i malintesi, le incomprensioni…Voglio la forza per sopportare tranquillamente tutte queste cose.” So che è difficile da trovare questa forza ma io ho solo una ferita che mi aiuta, un catalizzatore, forse è la mia piccola fortuna, un piccolo tesoro che assorbe l’oscuro essendo la causa stessa di quel profondo inquieto dolente indomito lato buio.

E’ che a volte quello che si ascolta non ha alcun senso, alcuno percepibile, alcuno decrittabile. Ecco, a volte il senso è assolutamente e irrimediabilmente indistinguibile, indecrittabile, inaccessibile ad ogni possibilità di intersezione e immedesimazione. Ecco.

E’ che ho rivisto alcuni amici, M. e G. e L., anche altri che non vedevo da tempo, il tempo sta diventando un concetto strano, dilatato, infinito, sorprendente. E’ che mi piace tornare indietro a volte, mi conforta, mi fa bene all’anima, mi fa sorridere e ridere. Li riconosco nonostante il tempo, nonostante le distanze. E’ che M. ora è solo, ho sempre pensato che non fossero perfetti insieme, con A. dico, lo avevo visto perfetto con D., lo percepivo nitidamente da come si guardavano, da come si sfioravano, da come si parlavano, vivevamo insieme quando eravamo studenti, D. la conoscevo bene, mi piaceva che stessero insieme, si amavano; poi avevo preferito andare altrove, il loro sballo non era il mio, avevo altre preferenze, altra gente, suggestioni, interessi, vita. Ma M. lo conoscevo dall’asilo, amico d’infanzia, l’ho ritrovato con D., andavo spesso a cena a casa loro, sorridevo a vederli insieme. Fine dello studio, fine con D.; con A. avevo sempre pensato ci fosse qualcosa che mi stonava, non ho mai capito cosa fosse ma poi è finita. M. parla poco ma non sempre serve parlare, quando ci si riconosce non sempre le parole hanno così potere indomito, non ci si vede spesso ma ci si vuole bene. C’era anche G., ora vive in riva al mare, non molto lontano, ci sono palme lungo la riva, ha due figlie ma non ha avuto situazioni tranquille, sempre in giro per lavoro e la sua donna che non facilmente si adattava a questi avanti e dietro. Ora sembra sereno. L. invece mai ha avuto vita facile, un padre che aveva due donne contemporaneamente, senza arte ne parte, viveva a volte con i fratelli nati dall’altra donna, senza stabilità alcuna, in continuo vagare da una casa ad un’altra. Storie mai stabili, uscita una ragazza ne entrava un’altra. Ha gli occhi segnati, non è sciocco, è solo triste.

E’ che sono tornato indietro, in un attimo, di molti anni, poi ho pensato inopinatamente che nulla torna, non che non lo sapessi ma avevo, per un tempo indefinito, sospeso tutto. E’ che ho visto nelle loro facce, nelle rughe, nelle voci, negli occhi che tutto scorre velocemente.

 

“Il puro presente è il processo impercettibile in cui il passato avanza divorando il futuro. A dire il vero, ogni percezione è già ricordo.”

Un vino del trentino da uve pavana, un metodo classico da un’uva rossa, azienda agricola angelica, bella l’etichetta, un bel vino allegro, simpatico, bevuto con buon risotto al ragout e mozzarella, agrumi evidenti e bella pulizia, tempo fa ero un po’ ortodosso su sta cosa, non m’incuriosivano le bollicine rosse, avevo preferenza per bollicine da pinot nero in cui la struttura fosse evidente, percepibile, anche a scapito della trama elegante, potenza e forza versus eleganza, è che poi  le cose cambiano, sempre, tutto un divenire sempre in movimento, difficile se non impossibile pensare  alla vita e alle persone e alle cose in termini di staticità, la coerenza credo non possa esistere  nella continua definizione della vita. Coerenza, se tale è la risposta definita, la ferma necessità di poter cambiare idea sempre ma riferendo alla natura più intima di sé, l’evidenza esterna alla necessità più fonda di sé, ecco, sì, sono coerente, anche se detesto profondamente questo lemma anche se non so perché.

L’infinito dolore che permea ogni minima infinita invisibile incontrollabile parte del sé più intimo, la tracimazione impulsiva che è implosione visibile di ogni sensazione che propaga dentro come un carcinoma, espande il dominio a qualsiasi pensiero razionale trasformandolo in irrazionale e indefinito ed egotico centro periferico che assurge a dominate assoluto. L’idea che la felicità è solo il termine di una fase d’infinita profonda noia, come l’assorbimento e arrivo di una fase di tumido tedio. Quella descrizione capillare,  analitica, minuziosa di cose inutili, di gesti irrimediabilmente comuni, cos’altro è se non la glorificazione del nulla più assoluto? Cosa è l’espressione estetica della nostra società del dio consumo assurto a sopra-dio? Cosa?

E’ che a volte ho la sensazione di non sapere cosa sto facendo, guardo intorno e non riesco a capire dove sono, perché sono proprio in quel posto in quel momento. E’ che a volte, spesso direi, scelgo quel che leggo senza alcun motivo apparente, invero senza, anche, motivi reconditi, solo scelte casuali, magari impulsive ovvero legate ad un minimo, insignificante, esiguo motivo, scelte senza fondamento. Eppure scelte che portano scoperte magnifiche, dense, vivide, anche inutilità, certo ma è bellissimo trovare dietro una mancanza di attese storie emozionanti, laceranti, intriganti, voltare un angolo su una strada banale e trovare mondi molteplici, che portano altrove, che rimandano indietro ovvero sono solo il transito per scoperte altre, passare da una strada grigia e fumosa ad un mare luminoso e brillante e accecante, poi trovarsi, inopinatamente, tra la nebbia di una città che nasconde tesori indicibili, ovvero segreti innominati, maledizioni ataviche. E’ che a volte non si sceglie proprio nulla, semplicemente si viene scelti senza averne l’idea.

Il mistero massacrante della forma è che è presente, c’è, e tutto finisce lì. E dentro una forma si può dimorare lascivi, senza sapere quale ma nella segreta presunzione di poter arrivare infine a vederla, facendola emergere dallo sfondo come l’abbozzo di un dipinto successivamente ricoperto dal colore. Inconsapevoli, ogni volta, della forma che circonda, fino a osservarla definita e rimanerne delusi. La forma. Non c’è necessità di discutere, martellante nella testa, ripetitivo, scalmanato e  pacificato, spingo gli auricolari nelle orecchie come se il suono dovesse penetrare il cervello, diffondere come una flebo di suoni.

E’ che oggi la Chiara ha messo su un bellissimo cappellino da cuoco, ha iniziato a tagliare il sedano, le carote, una cipolla rossa, poi ha scelto le spezie da utilizzare, chiodi di garofano, pepe rosso e nero e verde, poi pepe di szechuan o Sichuan che dir di voglia, voleva mettere anche la noce moscata ché quando faccio il ragout uso sempre però per un brodo di pesce forse la noce moscata non è necessaria, poi ha messo dentro, con difficoltà che le facevano un po’ senso, le teste di gambero, tutto per un profumatissimo brodo di pesce, per il risotto. Poi le chiedo di mettere uno spicchio di aglio vestito in una padella con dell’olio, quello della nonna? Sì, Chiara, usa quello, dopo qualche minuto metti nella pentola il pesce, gamberi, cozze, vongole, polipi e totani, aiuto fondamentale oggi. Che vino mettiamo? Un bel vinello bianco? Brava la mia piccola, apriamo quello che ho comprato a Cerea, vino terronico, siculo, SP68 bianco di Arianna Occhipinti, da albanello e moscato di alessandria, vinificato secco, al naso l’aromaticità del moscato è evidente, in bocca si percepisce solamente poi la freschezza prevale, lo uso per il pesce cui aggiungo anche un po’ di brodo e dei pachini, quando è pronto le faccio mettere il riso, carnaroli di cascina veneria, lascio tostare per qualche minuto poi mi faccio aiutare a versare il brodo, lo metto tutto insieme, la cottura ad assorbimento completo. La Chiara sorride, ha fatto un risotto che le è piaciuto molto, SP68 interessante con il risotto, il brodo speziato rendeva accogliente quell’aromaticità non accentuata, la freschezza faceva il resto, poi l’alcolicità contenuta lascia bere quel vino con gran facilità. Vino siculo, che parla di una strada provinciale che metaforicamente rappresenta il viaggio dei contadini verso le vigne e poi il percorso del vino verso le diverse destinazioni.
E’ che ho un valido aiuto cuoco ora.