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Ricordi

“…la forza che cerco non ha a che vedere col vincere o perdere. Non voglio un muro per respingere la forza che viene dall’esterno. Quello che voglio è la forza per ricevere gli assalti che arrivano, e sopportarli. L’ingiustizia, la sfortuna, la tristezza, i malintesi, le incomprensioni…Voglio la forza per sopportare tranquillamente tutte queste cose.” So che è difficile da trovare questa forza ma io ho solo una ferita che mi aiuta, un catalizzatore, forse è la mia piccola fortuna, un piccolo tesoro che assorbe l’oscuro essendo la causa stessa di quel profondo inquieto dolente indomito lato buio.

E’ che a volte quello che si ascolta non ha alcun senso, alcuno percepibile, alcuno decrittabile. Ecco, a volte il senso è assolutamente e irrimediabilmente indistinguibile, indecrittabile, inaccessibile ad ogni possibilità di intersezione e immedesimazione. Ecco.

E’ che ho rivisto alcuni amici, M. e G. e L., anche altri che non vedevo da tempo, il tempo sta diventando un concetto strano, dilatato, infinito, sorprendente. E’ che mi piace tornare indietro a volte, mi conforta, mi fa bene all’anima, mi fa sorridere e ridere. Li riconosco nonostante il tempo, nonostante le distanze. E’ che M. ora è solo, ho sempre pensato che non fossero perfetti insieme, con A. dico, lo avevo visto perfetto con D., lo percepivo nitidamente da come si guardavano, da come si sfioravano, da come si parlavano, vivevamo insieme quando eravamo studenti, D. la conoscevo bene, mi piaceva che stessero insieme, si amavano; poi avevo preferito andare altrove, il loro sballo non era il mio, avevo altre preferenze, altra gente, suggestioni, interessi, vita. Ma M. lo conoscevo dall’asilo, amico d’infanzia, l’ho ritrovato con D., andavo spesso a cena a casa loro, sorridevo a vederli insieme. Fine dello studio, fine con D.; con A. avevo sempre pensato ci fosse qualcosa che mi stonava, non ho mai capito cosa fosse ma poi è finita. M. parla poco ma non sempre serve parlare, quando ci si riconosce non sempre le parole hanno così potere indomito, non ci si vede spesso ma ci si vuole bene. C’era anche G., ora vive in riva al mare, non molto lontano, ci sono palme lungo la riva, ha due figlie ma non ha avuto situazioni tranquille, sempre in giro per lavoro e la sua donna che non facilmente si adattava a questi avanti e dietro. Ora sembra sereno. L. invece mai ha avuto vita facile, un padre che aveva due donne contemporaneamente, senza arte ne parte, viveva a volte con i fratelli nati dall’altra donna, senza stabilità alcuna, in continuo vagare da una casa ad un’altra. Storie mai stabili, uscita una ragazza ne entrava un’altra. Ha gli occhi segnati, non è sciocco, è solo triste.

E’ che sono tornato indietro, in un attimo, di molti anni, poi ho pensato inopinatamente che nulla torna, non che non lo sapessi ma avevo, per un tempo indefinito, sospeso tutto. E’ che ho visto nelle loro facce, nelle rughe, nelle voci, negli occhi che tutto scorre velocemente.

 

“Aspetta che siano davvero lontani. Poi torna a guardare il cielo e all’improvviso percepisce la consistenza cromatica di quel mattino. Per qualche secondo ha la sensazione di essere sospeso dalle cose. Lontano. Adesso sa che è davvero mattino, una sensazione antica e inspiegabile. Mette le mani in tasca e scende verso il porto. Il sole è lento e obliquo, uomini gridano altri ascoltano, il bar spreca caffè che cade sul vassoio della macchina espresso, i tavolini sono già coperti dall’acqua e dall’umido; l’odore del pesce è fortissimo, si ferma ad osservare le casse bianche coi polipi e i frutti di mare e le triglie rosse e le spigole e le orate, dove saranno gli altri? Non pensa ad altro ormai. Ora, in questo istante, tutte le facce che ho incontrato in questi giorni, che staranno facendo? Questo dannato pensiero che lo tormenta da sempre, la contemporaneità, che sta accadendo in quell’istante?… da qualsiasi altra parte? Dove bisogna trovarsi per essere felici? Cosa mi sto perdendo?”

E’che la voce di david bowie esce piano, sopra questo silenzio momentaneo, ho pensato potesse accompagnare tutte quelle immagini che scorrono con ripetizione casuale nella cornice digitale, penso che non ho più foto su carta, penso anche le leggere un libro su un supporto digitale a me fa molta tristezza anche se ho un po’ di curiosità, mi da un senso di freddo gelido che credo farò a meno di provare, certo posso portarmi dietro tutti i libri che ho a casa ma non so, non riesco a pensarci, verrebbero meno tutti quei gesti rituali forse, necessari di certo, ora bjork, voce bellissima, perfetta per quelle immagini con la neve, posso pensare forse ad una coperta di linus digitale? No, non ci penso,  immagini scorrono verso venezia, le calli, il mare, i rumori che non si sentono, oggetti strani in un luogo così antico, un po’ stridente la vicinanza, però bella, les negresses vertes, l’homme de marais e jeff buckley, anche radiohead, mi rendo conto che è tutto disomogeneo, come non ci fosse alcun filo invisibile che lega tutto, né visibile, che ne dia un senso minimamente compiuto, semmai sia necessario un senso per ogni cosa, quella copertina che sembra un deserto di sabbia ed invece potrebbe essere una landa di ghiaccio infinita, algida distesa azzurra polverosa, belli questi giorni sempre luminosi, azzurri, luminosi, freddi ma belli, l’aria gelida che s’insinua sotto il casco, gesti continui, ripetuti, inconsci, vaganti, annuso le dita dell’odore intenso, aspro, grace mi emoziona, lento, lento,  la voce gutturale acuta, poi detona forte, a volte leggo cose che non afferro, non mi riesce di capire nulla di quelle parole, non mi consentono di entrare, forse non ne sono capace, non riesco a trovare la chiave che mi apre la porta di casa, così guardo da fuori senza riuscire a distinguere le forme all’interno, poi le abbandono quelle parole, la mia incapacità non è un cruccio, affatto lo è.

 

Mi sveglio presto, il cucciolo piange, accendo la piccola luce vicina al letto, il primo sguardo incontra questo libro, letto qualche anno fa. Mi ricordo lo svelare lento di vite fatte di solitudine vivida, vite che si sovrappongono, senza quasi toccarsi, il punto di contatto comune un palazzo con un ascensore di altri tempi, rivestito di mogano, come se quell’ascensore orientasse lo sguardo sulle varie vite che popolavano il palazzo, ogni piano, ogni appartamento, uno sguardo, più d’uno magari. Vite eccentriche ovvero noiose ovvero alla ricerca di gesti per riempire vuoti incolmabili ovvero normali, semmai una città come new york possa contenere normalità. Bellissima sovrapposizione di anime sole. Bellissimo libro Baciarsi a Manhattan.

Non tollero sentir parlare di dissolvimenti, eterna memoria per me. Qualcuno diceva che l’identità della persona è il composto di se stessa e della sua circostanza, un elemento esterno alla definizione di noi stessi. Può, la circostanza, essere un altro se? Non so dire se ciò può essere vero, una combinazione la nostra identità tra un evidente e un’ipotesi, cosa peserà più, media bilanciata forse, ovvero incongrua? Elemento malleabile versus mera casualità. Incomprensibile?

Consapevolezza della mediocrità che toglie il sorriso, a volte indugio in questi pensieri ma ho deciso che non posso abbandonarmi ad essi senza resistenza, sarebbe la fine, ho voglia di vivere sempre, ho voglia anche della mia mediocrità quando la sento, della critica feroce verso il me indifendibile, la sento quella caduta verso il buio assoluto in cui non si percepisce alcun minimo spiraglio, in cui i confini si perdono, si liquefanno viscosi, voglio lottare fino a sanguinare, ogni cosa possa accadere. La morte, l’ho conosciuta tempo fa, molto tempo fa, da quel giorno non mi tocca più, quel giorno mi ha inaridito, reso distante, quasi intoccabile, no, intoccabile non lo è nessuno, indifferente sì alla morte

A volte l’unica sensazione è quella di soffocamento, pensieri scostati con violenza, mancanza di respiro che occlude ogni cosa, ogni tentativo di altro. Una contaminazione della notte, strascichi di sogni innominati, senza ricordo, vividi solo nei residui cancerosi dell’umore. Solo percezione d’immagini, che siano state orribili specchi di storie inquietanti; ritratto sconclusionato invero, dai contorni informi e gocciolanti, a geometria variabile al contempo. Sovrappone l’immagine reale sino a costruire una sorta di essere facilmente incomprensibile, forma novativa informe da origini definite.

Stringo e ne percepisco il dolore. Stringo e ne percepisco il profumo. Vene in rilievo disegnano ombre. Ombre che allungano sulla pelle, alternato buio luce. La mano ancora. Mi lascio guardare. Mi lascio guardare la mano che ricerca.

E’ che a me il vino piace, mi piace davvero, non tanto la ritualità che anche ho imparato e poi abbandonato solo per come poi le cose vanno, casualità dico ché a me piaceva eccome mescere e parlare di vino con chiunque mentre ora sembra ne voglian fare una questione di ricercatezza ma questo è solo una piccola polemica personale; mi piace proprio tutto quello che il vino suggestiona, mi piace parlare con vignaioli che credono davvero in quel che fanno, credono che fare vino significhi principalmente rispetto della terra, non contaminarla con schifezze chimiche che possono distruggerla nel tempo, credono nella natura, nel ritorno a fare il vino seguendo ciò che la natura ha sempre insegnato a chi vuole ascoltarla, senza forzare i tempi e i modi; mi piace guardare le bottiglie, sceglierle, pensare a cosa poter cucinare per quel vino con la certezza che è solo la curiosità di cercare emozioni il fine di tutto, non ho un vino preferito ché ancora ne devo bere molti che non conosco, mi piace percepire le sfumature ovvero le evidenze olfattive, tattili, cromatiche, mi piace pensare al vino e poi curiosare nella terra, nel luoghi, guardare al vino come una forma culturale, come espressione immediata di luoghi e bellezze e tradizioni, mi piace sentirne la mineralità, la potenza del corpo, come entra dentro e si appropria di tutti i sensi, come rimanda al calore, alla fatica, come possono essere scorbutici, spigolosi, timidi anche, alteri ovvero espansivi, come richiedono tempo oppure si svelano immediatamente, allegri, vistosi, ciarlieri. E’ questione di conoscenza? Conoscere. A volte penso che sia vana bramosia la conoscenza, la ricerca infinita invero.

Ho letto un articolo su un vignaiolo piemontese ormai morto da qualche tempo, Teobaldo Cappellano, me ne ricordo in una conferenza nell’aula magna dell’università a Siena qualche tempo fa, ricordi sovrapposti ad un’altra situazione in quel luogo bellissimo, ora se ne occupa il figlio dell’azienda, mi torna in mente allora una barbera d’alba che ho bevuto da non molto tempo, Gabutti 2003, colore vivo, perfetto dopo qualche decina di minuti dall’apertura, perfetto da bere dico, rotondo, morbido, di una freschezza che non sente i sette anni che ha, nell’occasione c’era del formaggio, un crottin di pecora notevole, un gorgonzola lieve e poco invadente, un blu del moncenisio che volevo utilizzare per un risotto con anche carciofi e barbozzo, non mancherà certo occasione per cucinarlo ancora, poi un incredibile grana di pecora, un formaggio sardo davvero delizioso, profumato di fiori, quella barbera passava da un formaggio all’altro senza problemi, quel vino come fosse un filo conduttore tra quei formaggi, provenienza e intensità e forza e sfumature differenti legate insieme da quel naso pieno, da quella fresca permanenza nella bocca.

E’ che penso al fatto di non aver mai amato i rituali eppure ne ho creato, involontariamente uno, rituale laico, ovvio, rituale del pranzo sabatino, nato non so come né da quanto tempo, un giorno strano il sabato, la mattina sembra senza tempo per quanto  passa celermente, non mi piace fare le pulizie di casa, mi piace invece fare spesa nel negozio di frutta e verdura vicino scuola, scegliere pere e mele e melanzane e peperoni e verza e carciofi e poi mozzarella ed anche ricotta, poi torno a casa, lavoro la ricotta con olio e pepe sino a renderla una crema un po’ grossolana, bello vedere come cambia la consistenza, il mestolo di legno senza rumore che gira e poi gira ancora, movimento costante, morbido, poi taglio a pezzi irregolari il salmone affumicato, continuo a girare, una crema morbida, poi della pasta integrale, rigatoni, quel movimento, bello, rotondo, come mani addosso che entrano la carne, l’ardito paragone senza senso? Noi ce se ne catafotte.

E’ che non mi torna in mente quasi mai, solo un’eco lontana, flebile, fors’anche inventata per com’è indefinita; non so proprio se vera quella voce, sonorità nebulosa intrappolata in una qualche connessione di un nulla buio e spazzato dai venti.

Nel buio la voce diffonde quasi indistinta, soffocata, un mantra lontano anche se così vicino, ripete, ossessiva, cresce ma resta indistinta, io ho preferenza di silenzio, ascolto, spingo, ascolto, spingo forte. Soffoca la voce.