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Archivio mensile:ottobre 2011

E’ che a volte è inestricabile il nucleo di sensazioni che pervade, che scorre sotto la pelle e diffonde ovunque, si fatica a distinguere tra le parole a volte. Sembra un gran gioco di teoria degli insiemi. L’appartenenza, la contiguità, l’intersezione, la tangenza. Vorrei tenerli distinti ma lo sforzo sarebbe immane. Fors’anche inutile. Le parole sono poi libere nel loro scorrere? La censura dell’intuito porta alla cesura dei pensieri, delle parole? Perché poi? Perché non lasciar dipanare le sue strette, a volte infide, maglie nei pensieri che giacciono placidi nella mente? Perché non abbandonarsi al suo sberleffo sarcastico per i beffardi inaspettati successi contro ogni visione che segue la ragione? A volte sento una fame indicibile, non di cibo, almeno non quello solido per la sopravvivenza fisica, invero di quel cibo per gli occhi, per l’anima, cibo necessario come l’assetato brama l’acqua non assaporata da tempo, come se tutto ci circonda fosse l’indispensabile  essenzialità per la vita che risiede dentro i movimenti meccanici del corpo, cibo che fa vibrare l’intangibile, l’invisibile vibrato che è qui dentro.

E’ che avevo in congelatore una gallina ruspante, inquietante il pensiero, vero, ma era ormai morta, gallina ruspante di quelle lasciate libere nei loro spazi finché arriva la loro ora, ormai un ricordo il caldo settembrino, autunno inoltrato, i primi freddi che fanno venir voglia di calore, penso allora a cosa posso fare con quella povera gallinella ormai deceduta, il brodo è una bella idea, la viviseziono, ne faccio pezzi piccoli, le ali, le cosce, il petto, metto tutto dentro una pentola con acqua fredda, una cipolla, delle carote, una costa di sedano, alcuni grani di pepe di Szechuan o Sichuan, un pepe dal profumo inebriante, due foglie di salvia e qualche bacca di ginepro, metto tutto sul fuoco e lascio cuocere quasi tutta la mattinata, un’oretta prima di quella che penso la fine della cotture, aggiungo anche due o tre patate. Che pasta? Direi, ovviamente, cappelletti fatti a mano ma non so ancora farli per cui li compro in un piccolo laboratorio che produce pasta, buoni davvero, filtro il brodo con un canovaccio così da togliere quel grasso giallo che tira fuori la gallina anche se un po’ lascio passarlo, i cappelletti li cuocio lì dentro. Avevo preso, qualche tempo fa, una bottiglia di franciacorta, un brut di enrico gatti che non avevo mai bevuto, consigliato dal mio amico germano, enoteca in cui ho lavorato ormai anni e anni orsono, bel vino fragrante, bel colore vivo, mi lascia la pulizia che cercavo, con il brodo, un vino non invadente, con impatto discreto, nel naso e in bocca, una discrezione elegante invero, non dominante, un piacevole commensale direi.

E’ che a me il vino piace, mi piace davvero, non tanto la ritualità che anche ho imparato e poi abbandonato solo per come poi le cose vanno, casualità dico ché a me piaceva eccome mescere e parlare di vino con chiunque mentre ora sembra ne voglian fare una questione di ricercatezza ma questo è solo una piccola polemica personale; mi piace proprio tutto quello che il vino suggestiona, mi piace parlare con vignaioli che credono davvero in quel che fanno, credono che fare vino significhi principalmente rispetto della terra, non contaminarla con schifezze chimiche che possono distruggerla nel tempo, credono nella natura, nel ritorno a fare il vino seguendo ciò che la natura ha sempre insegnato a chi vuole ascoltarla, senza forzare i tempi e i modi; mi piace guardare le bottiglie, sceglierle, pensare a cosa poter cucinare per quel vino con la certezza che è solo la curiosità di cercare emozioni il fine di tutto, non ho un vino preferito ché ancora ne devo bere molti che non conosco, mi piace percepire le sfumature ovvero le evidenze olfattive, tattili, cromatiche, mi piace pensare al vino e poi curiosare nella terra, nel luoghi, guardare al vino come una forma culturale, come espressione immediata di luoghi e bellezze e tradizioni, mi piace sentirne la mineralità, la potenza del corpo, come entra dentro e si appropria di tutti i sensi, come rimanda al calore, alla fatica, come possono essere scorbutici, spigolosi, timidi anche, alteri ovvero espansivi, come richiedono tempo oppure si svelano immediatamente, allegri, vistosi, ciarlieri. E’ questione di conoscenza? Conoscere. A volte penso che sia vana bramosia la conoscenza, la ricerca infinita invero.

Ho letto un articolo su un vignaiolo piemontese ormai morto da qualche tempo, Teobaldo Cappellano, me ne ricordo in una conferenza nell’aula magna dell’università a Siena qualche tempo fa, ricordi sovrapposti ad un’altra situazione in quel luogo bellissimo, ora se ne occupa il figlio dell’azienda, mi torna in mente allora una barbera d’alba che ho bevuto da non molto tempo, Gabutti 2003, colore vivo, perfetto dopo qualche decina di minuti dall’apertura, perfetto da bere dico, rotondo, morbido, di una freschezza che non sente i sette anni che ha, nell’occasione c’era del formaggio, un crottin di pecora notevole, un gorgonzola lieve e poco invadente, un blu del moncenisio che volevo utilizzare per un risotto con anche carciofi e barbozzo, non mancherà certo occasione per cucinarlo ancora, poi un incredibile grana di pecora, un formaggio sardo davvero delizioso, profumato di fiori, quella barbera passava da un formaggio all’altro senza problemi, quel vino come fosse un filo conduttore tra quei formaggi, provenienza e intensità e forza e sfumature differenti legate insieme da quel naso pieno, da quella fresca permanenza nella bocca.

E’ che penso al fatto di non aver mai amato i rituali eppure ne ho creato, involontariamente uno, rituale laico, ovvio, rituale del pranzo sabatino, nato non so come né da quanto tempo, un giorno strano il sabato, la mattina sembra senza tempo per quanto  passa celermente, non mi piace fare le pulizie di casa, mi piace invece fare spesa nel negozio di frutta e verdura vicino scuola, scegliere pere e mele e melanzane e peperoni e verza e carciofi e poi mozzarella ed anche ricotta, poi torno a casa, lavoro la ricotta con olio e pepe sino a renderla una crema un po’ grossolana, bello vedere come cambia la consistenza, il mestolo di legno senza rumore che gira e poi gira ancora, movimento costante, morbido, poi taglio a pezzi irregolari il salmone affumicato, continuo a girare, una crema morbida, poi della pasta integrale, rigatoni, quel movimento, bello, rotondo, come mani addosso che entrano la carne, l’ardito paragone senza senso? Noi ce se ne catafotte.

“Certi giorni scopro una specie di dolore della felicità. Quando è troppo forte faccio fatica a sostenerla. Ma poi la sostengo eccome. Ho proprio il fisico giusto, la capacità di un vaso grande: ne posso contenere una quantità vergognosa, volendo. E voglio. Certo che voglio.”

“E’ che a me proprio piace star lì a mettere insieme elementi per tirar fuori poi altro, con del radicchio rosso di treviso e del gorgonzola cosa si potrà fare? Un bel risotto, una base di olio e cipolle rosse lasciate rosolare piano, poi il radicchio tagliato a listelli sottili che cuoce piano nel soffritto con un bicchiere di vino rosso. Apro un vino della Valtellina, Il Pettirosso di Ar.Pe.Pe., 1997, un igt notevole, vino di 13 anni che sembra fresco come un giovincello, pieno di profumi, dal colore scarico, il nebbiolo, in queste zone chiamato chiavennasca, non ha colori così forti poi è un vino di così tanti anni, pieno di profumi creati nel tempo, le spezie evidenti, la frutta matura non così accentuata, il vegetale intenso, mi piace questo vino che ha poco peso alcolico, si beve bene, molto bene.” E’ che mi piace la filosofia di questa azienda della Valtellina, far uscire i vini dopo un lungo tempo di maturazione prima in botti e poi in bottiglia, esperienza rara questa, impegnativa, è che sono bellissime quelle vigne inerpicate sul versante nord della valle, sempre piene di sole così da creare una tradizione di vini surmaturi o passiti, bellissimo fermarsi in alto e guardare giù, vigne anche di qualche decina di metri quadri, due, tre filarini, i muretti a freddo, le carrucole che portano giù l’uva, ho qualche bottiglia ancora di questa bella cantina, il sassella rocce rosse e il grumello buon consiglio, anche una vendemmia tardiva, dovrò pensare a qualche buon piatto ora.

“Non ho ucciso Trogville. Dicano pure quel che vogliono, ma non l’ho ucciso. Sì, d’accordo, ho sciolto un blando narcotico nel suo bicchiere di whisky; poi, l’ho spogliato nudo, l’ho steso a faccia in giù sul parquet e ho infilato una zucchina nel suo ano butirroso e tremolante; ma quando ho lasciato il suo appartamento in via delle Orsoline era ancora vivissimo. Saranno state più o meno le nove di sera. A un quarto a mezzanotte lo hanno trovato abbandonato scompostamente sul pavimento come un burattino senza fili, con il cuore estirpato e sistemato con cura nel palmo della mano sinistra. E ora dicono che sono stato io. Io detestavo Trogville, lo odiavo e lo temevo, ma non sono stato io a ucciderlo.”

Un libro trovato casualmente, Confessioni di un cuoco eretico, letto l’incipit non si può non continuare.